Trascrizione della relazione proposta al Convegno da:
Dott. Giuseppe Bernardi – Medico Chirurgo, Fisiatra
Dott.ssa Grazia Manfellotto – Medico Chirurgo – Neurologa
Primo relatore: Dott. Giuseppe Bernardi
Sono nato come medico allopatico nel senso più bieco della parola: ero in un reparto universitario, in cui il paziente qualche volta aveva un nome, il più delle volte era un numero e qualche volta anche caso clinico.
Quest’ultimo diventava tale quando stimolava il mio narcisismo e mi permetteva di usare quello che avevo imparato per cercare di risolvere più o meno brillantemente il caso, per trovare una diagnosi o una terapia, e qualche volta forse anche guarire il paziente.
Questo percorso non era tanto rivolto al paziente quanto a me stesso: il mio narcisismo veniva così appagato. Naturalmente mi faceva riempire l’armadio di scheletri: non se erano più numerosi i successi rispetto agli insuccessi. Qualcuno – ora non ricordo chi – disse che gli uomini hanno la capacità di definire gli errori esperienze, e quindi io ero un uomo ricco di esperienze.
Pian piano è subentrata una crisi e mi chiedevo cosa stavo facendo con queste persone. Alcune volte il fallimento era totale, il paziente non rispondeva o non si riusciva a capire la situazione. Ho quindi iniziato a cercare un contatto con un essere umano, facendolo sì che da numero, da caso clinico, diventasse un mio paziente: un essere umano.
Questo mi ha fatto deviare dal bieco vedere il paziente in maniera allopatica.
Le esperienze sono lunghe, il percorso è stato articolato fino ad arrivare all’incontro, non so se positivo o negativo con Diego Maggio.
L’ho già raccontato e la farò breve in questa sede: ci fu grande scetticismo al primo incontro. Lo vedevo come un illuso all’inizio che raccontava delle cose strane. Oltretutto il dilemma angoscioso che mi ha assalito per due giorni durante il corso è stato: “O sono cretino io perché non riesco a sentire il ritmo di cui parla, o sono cretino sempre io perché mi hanno dato una fregatura da un milione”.
L’intervento di Chiara Bosi poi mi ha aperto un orizzonte e il resto è venuto da sé.
La mia esperienza si è quindi spostata in un ambulatorio di una ASL in cui lavoro tuttora in collaborazione con la collega Manfellotto.
Noi ogni anno incontriamo dalle 3.000 alle 4.000 persone e da qui è venuto fuori un altro tipo di rapporto: il paziente che veniva a chiedere una prescrizione medica restava interdetto quando gli si diceva di accomodarsi un attimo per parlare e capire che cosa si sentiva. Erano stupiti del fatto che si volesse parlare con lui e lo si volesse persino visitare.
Anche le infermiere erano stupite: avevano un elenco di 40 persone – mediamente come specialisti ambulatoriali, per decreto ministeriale dobbiamo fare una visita in 15 minuti – e calcolando i tempi modificavano i numeri. Quando hanno visto che una visita durava un’ora si sono preoccupate e ci dicevano che alla ASL le cose vanno diversamente e che visite così lunghe si possono fare in ambulatorio privato.
All’ASL vengo sì per denaro, perché serve, ma vorrei avere anche delle soddisfazioni, ma nel tempo, con una progressione costante, esponenziale, porta ad avere un numero sempre più alto di pazienti che alla fine, anche se non hanno risolto nulla, dicono che per lo meno si sono sfogati. Da questo tipo di rapporto nasce il caso di cui parleremo oggi.
Avremmo potuto portare una casistica ampia, ma siamo pigri e meridionali… Abbiamo invece deciso di focalizzare tutto su un unico caso, volutamente, perché è emblematico.
Noi siamo pessimi operatori di cranio sacrale, e siccome ce ne sono di ottimi, di molto superiori a noi, lasciamo che se ne occupino questi ultimi.
Noi abbiamo cercato di proporre invece un nostro approccio, per farvi vedere come un soggetto, con una sua particolarità, da una situazione di totale o quasi totale ostilità è passato esattamente dall’altra parte, arrivando a preoccuparsi che non lo lasciassimo da solo.
Questo caso ha bisogno di un’introduzione più tecnica che farà la collega Manfellotto.
Secondo relatore: Dott.ssa Grazia Manfellotto
Appartengo allo stesso gruppo del Dott. Bernardi e della Dott.ssa Ciambelli, psicoterapeuta, laureata in filosofia, che ha seguito con noi questo percorso. Siamo tre persone con radici estremamente diverse, ma abbiamo in comune la passione per la Terapia Cranio Sacrale.
Ci riuniamo il venerdì nel nostro ambulatorio per prendere in considerazione alcuni casi e portare avanti un cammino insieme.
Scusatemi la retorica, ma vorrei cominciare da una frase che Amleto scrisse ad Omero: “Tu sei sempre stato uno che tutto sopportando nulla subisce e con pari animo accogli e favori e gli schiaffi della fortuna. Mostrami un uomo che non sia schiavo delle passioni e me lo porterò chiuso nell’intimo del cuore e nel cuore del mio cuore come io ho te”.
Avere una buona padronanza di sé ed essere in grado di affrontare e di resistere con tutto il cuore alle tempeste cui siamo sottoposti , e soprattutto non essere schiavi delle passioni, è una virtù elogiata da molti. Questa è una virtù di cui parlava molto Platone, che parlava di sophrosyne, cioè cura e intelligenza nel condurre la vita, con equilibrio e saggezza. I Romani parlavano di temperanza, la capacità di frenare gli eccessi emozionali, e Aristotele, più razionale, diceva che bisogna sentire in maniera appropriata le emozioni e comportarsi in modo adeguato rispetto alla situazione.
Fatto sta che la nostra vista psichica è il tentativo di una relazione in simbiosi tra due cervelli: quello emotivo e quello cognitivo, o limbico e razionale.
Il cervello emotivo è istintivo, immediato, sempre attento a creare tutte le reazioni che ci possono difendere dalle situazioni di pericolo.
Il cervello cognitivo, razionale analizza invece la situazione, è cosciente, e di fronte a una situazione ti induce a dare una risposta equilibrata.
Ho riportato qui sotto i due cervelli, perché quello limbico, chiamato così da Broca, è il cervello geneticamente più antico: è comune a tutti i mammiferi e ci permette di reagire a una situazione in 12 millisecondi. Si tratta del cervello più esterno, la neocorteccia, che nella storia si è costituita successivamente dal punto di vista genetico.
Questi due cervelli sembrano essere indipendenti nella loro reazione, ma in realtà collaborano per costruire insieme la nostra esperienza di vita.
Immaginiamo di capire come agiamo nella nostra vita con il cervello limbico e razionale.
Immaginiamo di vedere nella penombra di un bosco un ramo che assomiglia a un serpente.
Immediatamente il cervello limbico si attiva e noi reagiamo per difenderci.
In 12 millisecondi siamo in grado di vedere quella cosa che ci provoca impressione e paura. Successivamente l’informazione arriva alla corteccia che capisce che quella cosa è un ramo e possiamo avere una reazione di difesa. Perché succede tutto questo?
Dobbiamo pensare che il cervello libico, per quanto sia storicamente più antico, ha una struttura meno amalgamata, anatomicamente poco precisa. Succede quindi che a differenza della neocorteccia, ovvero della parte esteriore del cervello che ha più strati, quando arriva un’emozione dall’esterno viene analizzata momento per momento con precisione.
Ma come si analizza un’emozione, come reagiamo di fronte a una situazione?
Cominciamo col dire che il cervello emotivo è costituita da una struttura limbica che ora non vi sto a spiegare, ma che ha due nuclei: l’amigdala, e l’ippocampo, che rappresentano la nostra memoria emozionale.
Di fronte a un’emozione l’amigdala e l’ippocampo fungono da archivio personale delle emozioni.
Qual è la differenza tra i due?
L’ippocampo ha la sensazione di un’emozione più grossolana, l’amigdala ci dà con precisione il tipo di emozione, cioè il contenuto emotivo dell’emozione.
Ad esempio: quando vedo una persona, un volto a distanza e riconosco che si tratta di mio cugino, lì è l’ippocampo che agisce. Il ricordo del fatto che sia antipatico è dato dall’amigdala. Quest’ultima è infatti la memoria emotiva della nostra emozione. Insieme ippocampo e amigdala interagiscono. Quando siamo di fronte a un’emozione, primitiva o secondaria, la prima memoria ad intervenire è l’amigdala o l’ippocampo.
Una volta stimolati questi viene stimolato tutto il sistema limbico e tutta una serie di sistemi (cardiovascolare, muscolare, intestinale) e il cervello limbico, in relazione con la corteccia, cercano di creare le omeostasi del nostro organismo. Ogni situazione ed emozione cui siamo sottoposti viene analizzata in maniera specifica e in base a tale analisi noi reagiamo. Andiamo a vedere cosa succede.
Le emozioni fondamentali sono: la gioia, la tristezza, la rabbia, la paura, il disgusto. Poi ci sono le reazioni cognitive complesse elaborate a livello cerebrale.
Fino a molto tempo fa si pensava che il percorso per le emozioni fosse uno solo, mentre ultimamente Ledoux ha scoperto che la paura e le altre emozioni primitive sono controllate da due percorsi separati.
Di fronte a uno stimolo emotivo immediatamente questo stimolo giunge al talamo, dal talamo va alla corteccia sensoriale e da lì all’amigdala, come vedremo dopo, per arrivare al sistema limbico, a cui segue una reazione emotiva.
Ledoux ha scoperto che esiste una sottile componente di fibre nervose che dal talamo va all’amigdala, la via emotiva secondaria inferiore possiamo dire, ovvero quella che ci fa rispondere immediatamente a una situazione di pericolo, a un’emozione, che sia la gioia o la paura.
Andiamo a vedere cosa succede.
Immaginiamo di vedere una pantera: subito l’impulso emotivo arriva al talamo, da lì alla struttura orbito-frontale; da qui la sensazione viene elaborata e inviata all’amigdala e da lì al sistema limbico. Da lì scaturisce la reazione. Ma questo era il vecchio percorso dell’emozione.
Con la scoperta di questo nuovo percorso, dal talamo all’amigdala, però abbiamo capito che la prima emozione di fronte a un oggetto che ci fa paura porta l’impulso all’amigdala. L’amigdala mette subito in atto i meccanismi di difesa (tachicardia, irrigidimento dei muscoli ecc) ma normalmente, dopo 24 millisecondi dalla prima reazione, si riequilibra reazione e abbiamo un buon comportamento rispetto alla situazione.
Succede tuttavia che, a causa di stress emotivi molto forti e prolungati, la corteccia subisce un cosiddetto “furto corticale” e si attiva la via talamo-amigdala-sistema limbico. Quest’emozione viene subito somatizzata.
Vi ho riprodotto questi due percorsi: quello tradizionale con lo stimolo che dall’esterno va al talamo, dal talamo alla corteccia periorbitale, da qui all’amigdala e poi al sistema limbico e da lì si ha una risposta adeguata. Nel contempo comunque lo stimolo primordiale dal talamo va all’amigdala, che genera la reazione emotiva.
Quando i due cervelli non riescono a essere in sintonia tra loro c’è una prevalenza dell’uno o dell’altro. Negli episodi di forte emozione o stress prevale normalmente il sistema limbico, ovvero il cervello emotivo.
Perché tutto questo preambolo?
Nel nostro lavoro di squadra abbiamo capito che quando affrontiamo un caso con un paziente è molto importante stare attenti al suo vissuto, al suo emotivo e ai suoi sintomi, fondamentalmente, perché se un’emozione agisce così fortemente sul sistema libico forse attraverso il corpo riusciamo ad agire modificando la prevalenza del sistema limbico, ovvero emotivo, su quello razionale.
Abbiamo una lunga serie di casi clinici, ma ne abbiamo riportati due in particolare: uno è quello di Marcella, che aveva fatto molti anni di psicoanalisi. Sul lettino aveva imparato a lavorare su se stessa e aveva una serie di problemi nelle relazioni con i familiari, soprattutto con la madre, e attraverso il suo percorso terapeutico aveva imparato ad analizzare le sue emozioni, ma sul lettino non aveva mai vissuto fisicamente quell’emozione.
Il lavoro psicoterapeutico era andato molto bene, perché sia tutti i tipi di psicoterapia (da quella analitica a quella relazionale-sistemica) funzionano molto bene, però la paziente aveva in mente quell’emozione nel cervello. Lei non ricordava il vissuto emotivo del corpo. Trovandosi a seguire un percorso di fisioterapia in un posto balneare fu sottoposta ad una terapia cranio sacrale.
Quando la terapista le metteva sull’addome e soprattutto in una zona particolare dell’addome la mano lei sentiva un singhiozzo arrivarle fino in gola.
A un certo punto la terapista le disse di concentrarsi su quell’emozione e per la prima volta Marcella iniziò a piangere a singhiozzo, perché aveva improvvisamente rivissuto un’emozione di quando aveva 7 anni, quando cioè aveva avuto un attacco di appendicite ed era rimasta da sola in ospedale perché la madre non era tornata dalle vacanze e si era sentita abbandonata dalla madre.
Questo ci fa capire che quell’emozione che aveva cercato nella testa – giustamente, perché anch’io credo molto nella psicoterapia – era nascosta da sempre nel suo corpo.
A causa della stretta relazione del corpo col cervello, il cervello emotivo è più facilmente influenzabile tramite il corpo.
Le relazioni affettive, i rapporti con le persone della comunità hanno una forte componente fisica e quindi è importante che le vie di accesso al corpo siano prese in considerazione, in quanto sono dirette e ci aiutano ad affrontare efficacemente certi problemi di cui il nostro corpo ha memoria, anche se noi li abbiamo qui, perché ci vengono razionalizzati in seguito dal punto di vista cognitivo.
Passo ora nuovamente la parola al mio collega.
Termina la relazione il Dott. Giuseppe Bernardi
Una parola costante dell’intervento della mia collega è stata “emozione”. Abbiamo cercato di capire quindi cos’è un’emozione. Bisogna infatti cercare di definire le cose, e definire l’emozione non è cosa facile. Avete mai pensato a come descrivereste un’emozione con termini precisi?
La definizione che ci è piaciuta di più è la seguente: “ogni processo informativo ed emotivo, in quanto l’emozione è l’energia che guida, organizza, amplifica e attenua le attività cognitive e a sua volta è l’esperienza e l’espressione di questa attività”.
Ritorniamo ora al caso che vi avevo preannunciato.
Un giorno venne da me in ambulatorio una ragazza di 22 anni con una diagnosi abbastanza dura: tetraparesi spastica. Anche la sua storia clinica era piuttosto dura: una serie di interventi sui quali non mi soffermo che hanno caratterizzato tutta la sua vita, dalla nascita fino al momento in cui è arrivata da noi. Il suo atteggiamento iniziale era di chiusura totale: “mi hanno detto di venire qui perché devo fare della fisioterapia, anche se so che non funzionerà. I medici mi hanno detto di venire qui, a casa mi sgridano se non lo faccio, forse qualche scrupolo ce l’ho e quindi mi dovete iscrivere a questa terapia.”
Il semplice fatto di dirle “Fermati un attimo e parliamone” ha attivato non un’apertura ma, paradossalmente o non paradossalmente, una chiusura, e la ragazza è diventata ostile.
“Cosa volete da me?”
Era questo il suo atteggiamento.
Iniziare a penetrare questa corazza che si era creata non è stato affatto facile. Dopo due o tre colloqui puramente verbali è venuta fuori una sua parola chiave: “controllo”.
Continuava a dire: “devo controllare le mie emozioni, controllare il mio corpo che non accetto, la società intorno che mi crea dei problemi, la mia situazione familiare, le mie emozioni e i miei rapporti con gli altri”.
Questo ci ha creato delle perplessità e abbiamo quindi cercato di capire come entrare in questo sistema di controllo visto che dovevamo fare la cranio sacrale.
Noi andiamo a creare delle emozioni, a cercare delle emozioni, quindi abbiamo fatto un quadro generale e siamo stati un po’ vaghi per non attivare tutte le sue difese. Pian piano si è incuriosita, ma fondamentalmente era ostile e diffidente.
L’ostacolo più grande è stato una specie di scissione, di dicotomia.
“Il corpo non mi piace, non lo accetto e non gli do nessun valore perché mi crea anche dei problemi, ma mi consente, sia pure con difficoltà e danni di avere una vita e di intrattenere delle relazioni. Mi permette di andare all’università e quindi potete utilizzarlo. Fate pure quello che volete ma non toccatemi la mia mente, non permettetevi di toccare la mia emotività. Il corpo mi serve ma in fin dei conti non è mio, non lo accetto, ma la mente è il mio patrimonio.”
Si è creata un’ulteriore difficoltà quindi: dopo ogni trattamento che facevamo lei aveva delle difficoltà oggettive. Si modificava quello che lei non considerava: la sua statica, il suo equilibrio.
Il suo corpo, tanto disprezzato, tanto inutile e vituperato, ma in fondo tanto utile veniva modificato e allora non accettava più la terapia.
Diceva: “Perché tutto ciò? Mi sveglio la mattina con un equilibrio e quando infilo le scarpe so che camminerò bene, in un determinato modo, con una data andatura e postura. Ora però voi mi modificate tutto questo e io cado, non mi sento più sicura, sbando.”
Dopo una prima serie di trattamenti riscontravamo una difficoltà: quando si metteva in piedi non riusciva più a stare in posizione eretta e sbandava. Dovevamo aiutarla a riprendere il suo equilibrio per ridarle quel poco di autonomia che la caratterizzava inizialmente. Gli spazi del nostro ambulatorio erano ristretti e ciò accresceva le nostre difficoltà.
Non riuscivamo più ad andare avanti finché se n’è andata a Berlino 15 giorni per un lavoro ed è tornata completamente cambiata nei nostri confronti. Finalmente accettava la terapia perché a Berlino, una grande città, in pianura, con grandi strade e marciapiedi regolari è riuscita a camminare per 8 ore di seguito, cosa che non le era mai capitata.
Allora è tornata da noi dicendo: “Qualcosa di buono succede, funziona. Sono riuscita a camminare per 8 ore di fila. Ora cosa facciamo?”
Siccome a questo punto dovevamo lavorare sulla sua emotività le abbiamo chiesto di raffigurare una figura umana e poi se stessa. Le abbiamo poi chiesto di definirsi e lei si è definita – come sospettavamo: “come una piuma che viaggia contro vento, una Fenice che risorge dalle ceneri. Cerco sempre di vedere l’aspetto positivo delle cose. Come uno scoglio modellato dal mare della vita. La vita è un gioco di luci ed ombre che mi piace scoprire. L’anima dello scoglio è immutabile” Ecco perché diceva di toccarle tutto ma non la mente.” – ovvero il suo scoglio.
La forma muta con lo scontrarsi delle onde. Lei diceva sostanzialmente che potevamo modificarle il corpo.
Noi abbiamo cercato di interpretare tutto questo, ma non siamo psicoterapeuti, quindi la nostra è un’interpretazione un po’ più grossolana. Ciò che abbiamo sottolineato è che descrive se stessa in modo poetico e utilizza due metafore che si rivelano molto interessanti: la Fenice e lo scoglio, ci aiutano ad accendere la luce sulla sua percezione di sé e le sue contraddizioni, che sono connesse alla relazione mente-corpo.
La Fenice è l’uccello in cui vita e morte si fondono armoniosamente in un processo di perenne rinascita che costituisce il suo segno caratteristico. La Fenice simbolizza bene il suo sentimento profondo rispetto alla sacra unità mente-corpo in cui il corpo è una morte che costantemente si rinnova. Si rinnova ogni volta che lei lo investe di desideri, di speranze, di sogni (camminare, correre, librarsi leggera sulla terra, muoversi autonomamente nel mondo).
La mente è la vita che, prepotentemente, da questo corpo morto, perché ingombrante, traditore e immobile, fa emergere una seconda metafora: lo scoglio.
Lo scoglio ha un doppio significato: è la sua barriera difensiva dalla terra che la tutela che la tutela e ripara da tutti gli input esterni; dall’altro rappresenta l’ostacolo contro cui lei deve lottare quotidianamente. Da qui emerge anche una doppia percezione della propria condizione: la forza del pensiero e dell’immaginazione è lo scoglio del corpo in cui si infrangono le sue speranze.
Questa doppia condizione è emerso in modo abbastanza evidente dai suoi disegni.
Tutto il resto a questo punto non ha grande valore. Volevamo farvi comprendere non tanto le tecniche che abbiamo usato (sapete usare tutti le mani meglio di noi) quanto il fatto che abbiamo dovuto fare un doppio lavoro: acquistare prima la sua fiducia lavorando sul corpo e poi siamo riusciti ad interagire anche con la sua emotività con risultati brillanti.
Siamo riusciti a farla deambulare senza bisogno di calzature – cosa che non era mai riuscita a fare prima nella sua vita – ma soprattutto siamo riusciti ad ottenere una fiducia in se stessa, nella sua capacità di modificare e dominare questo corpo che prima non accettava, il che ha dato senso a un approccio terapeutico.